Intervista a Marco Pace – Giugno 2010
martedì, 4 Gennaio 2011 by Daniela NativioParlaci del tuo nuovo ciclo di dipinti.
Nelle opere di quest’ultimo ciclo, a protezione di quel fascino che il “selvaggio” ha sempre avuto sul mondo occidentale; l’incongrua presenza di figure che non siamo abituati a incontrare nelle vicinanze territoriali, nel contesto di architetture moderne; posti in compresenza ambientale, dovrebbe creare uno sfalzamento per lo meno di ordine visivo. Così la categoria dell’altro si stempera. Tutto è terreno di caccia: appaiono maschere di sacerdoti iniziati a riti primordiali, animali che si assalgono, com’è la loro legge. Il territorio manca di normalità, si spezza quella normale condizione di sicurezza che ci si aspetta. Non fa paura l’immersione nella natura selvaggia, fa paura il non riuscire a sopravvivere a qualcosa che non conosciamo. In questa condizione lo spettatore si trova spiazzato e l’immagine diventa di natura surreale, e a me piace.
“E’ troppo facile scrivere poesie quando si sta male” hai dichiarato in una delle tue ultime interviste, quando scatta in te la scintilla creativa?
La scintilla creativa in me non scatta, perché ho in me acceso il fuoco creativo che si alimenta con le immagini che mi rievocano una scena che a me ha lasciato una profonda impressione. Il mio lavoro è ritrovare quelle immagini, ormai perse perché passate, per poi dipingerle, in maniera da richiamare quella scena che in precedenza mi aveva impressionato, in modo più chiaro possibile.
Tra i tanti artisti maledetti ed incazzati hai dichiarato di amare Francis Bacon, un’artista che esprime nelle sue opere il dolore, il delirio della carne ma anche e, soprattutto, la sofferenza esistenziale. Attraverso urli devastanti e corpi lacerati. Dove trovi nei tuoi lavori questa estetica della devastazione?
Nei miei quadri questa estetica della devastazione é di natura spazio temporale. Se dipingo una figura in un luogo in cui essa non abita ho distrutto qualcosa: la nostra percezione della realtà e questo mi interessa in maniera inconscia.
Hai appena concluso un’importante viaggio a New York. Una città che ti ha riempito di soddisfazioni, ma soprattutto ti ha trasmesso il senso della libertà di espressione. In Italia questa libertà secondo te è soppressa, si dovrebbe dare più importanza all’individualità di un’artista?
Non solo in America, anche in molti paesi nord europei. Lo Stato si interessa ai giovani artisti: ci sono molti concorsi, borse di studio ecc. promossi dallo stato. Ho conosciuto giovani artisti inglesi che prendono uno stipendio, o che hanno pubblicato un catalogo con i soldi statali. Il problema è: è giusto che un’artista giovane viva già del suo lavoro a vent’anni? Non ha bisogno di farsi le ossa sul campo? Non che l’arte abbia bisogno di malessere, ma sicuramente non ha bisogno di gente che a vent’anni si crede arrivata.
Passiamo ad un tuo progetto che mi interessa particolarmente “La Città è Salita”. Penso a Boccioni e alla “La città che sale”, la sua Milano è una proto metropoli, depositaria delle emozioni dell’uomo moderno, perso nella dinamicità del caos metropolitano.
Addirittura mi viene da pensare all’opera “Stati d’animo” e ai cavalletti che Boccioni metteva nella stazione di Milano dipingendo le persone che vanno e vengono, come se la location metropolitana fosse una sorta di palcoscenico esistenziale. Nella tua opera, “La Città è salita”, parti dai presupposti di Boccioni ma tutto si sviluppa in chiave apocalittica. Parlaci di questo prodigioso progetto.
Quando studiai i quadri di Boccioni ne rimasi molto impressionato. “ La Città che sale” è come un tatuaggio che porto dentro. I colori, la tecnica, e il significato di quel dipinto mi portarono almeno a 5 anni di lavoro sulla mia pittura. Quel dipinto fondamentalmente m’inquietava e di solito mi portava a pensare: se “La città che sale” rappresenta, così di primo impatto, la voglia che ha la città stessa di crescere e di svilupparsi in maniera colossale, ed è stato dipinto agli inizi del ‘900, ormai, nel 2000 la Città è Salita… così immaginai un enorme Dio artificiale che si auto creava, non aveva più bisogno dell’uomo per costruirsi ma aveva una vita propria e iniziava a conquistare tutti gli spazi naturali. Così dipinsi quel quadro, e un’altra cinquantina di quadri sullo stesso tema. Tutta quella serie la dipinsi senza il supporto di foto quindi senza alcun riferimento ad immagini reali. Oggi tutti i miei quadri hanno bisogno di foto infatti la prima parte del mio lavoro, oggi, è la fotografia. Per poter dipingere la realtà ho fatto molti quadri en plein air dopo il 2000.
Ultima domanda, quale artista richiameresti in vita?
Richiamerei in vita, naturalmente con un rito voodoo, gli artisti morti giovani che più apprezzo cioè, per citarne due, Keith Haring e Andrea Pazienza.
Intervista a cura di Daniela Nativio.
Tag: arte, bacon, boccioni, daniela, disegno, firenze, hering, marco, nativio, pace, pazienza, pittura
29 Gennaio 2011 alle 12:02
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